CSR MAGAZINE
5 Dicembre 2025
Green Claim: quando il marketing si maschera da sostenibilità
Cosa hanno in comune una “maglieria IMPATTO 0”, un solare “reef-friendly” che in realtà danneggia i coralli e una collezione “conscious” che nasce da filiere semi-sconosciute?
Sono tutti esempi di green claim, dichiarazioni ambientali fuorvianti utilizzate dalle imprese per rivendicare le proprie azioni come sostenibili al fine di orientare le scelte di consumatori ormai sempre più attenti all’impatto ecologico e sociale dei loro acquisti.
Ma quando questi claim sono generici, non verificabili o semplicemente falsi, possono sfociare in greenwashing. E oggi, tra sentenze storiche e nuove norme europee, la loro regolamentazione è al centro del dibattito.
A cosa “servirebbero davvero” i green claim
I green claim sono asserzioni ambientali usate per comunicare impatti positivi, o ridotti, che un prodotto, un servizio o un’impresa, può generare sull’ambiente.
Possono riferirsi a:
- impatti climatici (ad esempio “carbon neutral”, “a impatto zero”)
- caratteristiche del prodotto (come “biodegradabile”, “durevole”)
- pratiche aziendali (del tipo “produzione sostenibile”, “filiera etica”)
In un contesto regolato e trasparente, questi claim dovrebbero aiutare il consumatore a orientarsi tra scelte più consapevoli. Ma, in assenza di criteri chiari e verificabili, diventano terreno fertile per ambiguità e dichiarazioni prive di fondamento.
Dichiarare che un packaging è “100% riciclabile” può configurare un green claim se, nella realtà, quel materiale non può essere totalmente riciclato o non viene trattato come tale nei normali sistemi di raccolta. Il messaggio rassicura, ma non informa davvero.
È proprio questo scarto tra intenzione dichiarata e realtà operativa che consente a molte imprese di apparire sostenibili senza integrare nell’effettivo la sostenibilità nei propri modelli di business, nei processi produttivi e nelle filiere.
Le parole, così, prendono il sopravvento sui fatti.
L’Europa alza l’asticella…
Quel divario tra ciò che viene dichiarato e ciò che viene realmente fatto non è passato inosservato a Bruxelles. Da anni l’UE osserva con crescente preoccupazione l’uso disinvolto degli slogan “green”, ma l’unico riferimento normativo è stata la Direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali: utile, sì, però troppo generica. Infatti, non conteneva norme specifiche sui green claim, pur permettendo di sanzionare le affermazioni più ingannevoli.
È in questo contesto che nasce la Direttiva (UE) 2024/825 – Empowering Consumers, pensata per riportare rigore a un linguaggio ambientale inflazionato. La sua missione è chiara: trasformare la sostenibilità da suggestione a informazione verificabile. Dichiarazioni come “impatto zero”, “eco-friendly” e “carbon neutral” non potranno più circolare senza basi solide, criteri trasparenti e dati messi a disposizione del consumatore. E le etichette ambientali dovranno appoggiarsi a sistemi di certificazione riconosciuti, non a loghi inventati internamente dalle aziende.
…e l’Italia segue
Con il decreto legislativo approvato a novembre 2025, l’Italia porta a terra la Direttiva e aggiorna il proprio Codice del Consumo. Le nuove regole impongono alle aziende un cambio di passo concreto.
Per i green claim arriva la stretta definitiva: termini generici come “ecologico” o “sostenibile” diventano vietati se non supportati da prove scientifiche e certificazioni riconosciute, come l’Ecolabel UE.
Le nuove regole riguardano anche la trasparenza sul ciclo di vita dei prodotti: le aziende dovranno indicare la reale durabilità, spiegare se e come siano riparabili e dichiarare la disponibilità di ricambi, contrastando direttamente le logiche dell’obsolescenza programmata.
Non solo: anche il commercio online finisce sotto la lente, con obblighi più stringenti per garantire che le promesse fatte nelle vetrine digitali siano chiare, complete e soprattutto veritiere.
Ma ancora prima del recepimento ufficiale della direttiva UE, un segnale forte contro il greenwashing è arrivato da Milano. Il Tribunale del capoluogo lombardo ha infatti dichiarato illegittimi alcuni green claim particolarmente diffusi ritenendoli ufficialmente fuorvianti per il consumatore medio e quindi di fatto anticipando l’intenzione delle norme europee.
Le asserzioni in questione sono: “maglieria IMPATTO 0”, “questa impresa rispetta alti standard di impatto ambientale e sociale positivo”, “seguiamo i più alti standard di sostenibilità, trasparenza ed equità” o “la nostra filiera garantisce standard produttivi a impatto zero”.
Il quadro che emerge è quindi molto chiaro: la stagione del green di facciata sta finendo. Le nuove norme europee, il recepimento italiano e persino la giurisprudenza locale stanno spingendo la sostenibilità fuori dal territorio degli slogan e dentro quello dei fatti verificabili.
È una trasformazione che chiede più responsabilità alle imprese, ma che restituisce più fiducia ai consumatori e più valore alla parola “sostenibilità”.
Perché la sfida non è raccontare un mondo più verde: è contribuire davvero a costruirlo.
27 Novembre 2025
