CSR MAGAZINE
5 Maggio 2022
Buco dell’ozono, perché le aziende non devono abbassare il livello di attenzione
Il buco dell’ozono fa registrare “prestazioni” da record, con un 2021 che lo pone tra i più grandi e duraturi mai registrati da quando, nel 1979, è stato avviato il monitoraggio dello strato di ozono che protegge la vita sul pianeta Terra. Un dato non da poco, visto che è il secondo anno consecutivo che i numeri toccano cifre da primato. Scopriamo perché le aziende non devono abbassare la guardia.
Il ciclo annuale del buco dell’ozono
Lo strato di ozono che protegge la Terra dai Raggi UV (Radiazioni solari ultraviolette) è fondamentale per garantire la vita sul pianeta e ha un suo ciclo di apertura e chiusura. Il processo prende il via intorno ai mesi di agosto-settembre, con l’arrivo della primavera nell’emisfero australe e si conclude a dicembre, in corrispondenza dell’estate australe. La massima estensione si registra tra settembre e ottobre.
Un trend che preoccupa
Chiusosi negli ultimi giorni di dicembre, il buco dell’ozono 2021 passerà agli annali come il secondo più duraturo della storia. A rivelarlo sono stati gli studiosi del programma europeo Copernicus Atmosphere Monitoring Service, che non hanno mancato di sottolineare l’eccezionalità dell’evento, riferendo come l’anno scorso il buco si sia chiuso più tardi rispetto a ben il 95% di tutte le misurazioni precedenti, dal 1979 a oggi.
In termini di estensione, invece, il dato registrato a dicembre parla di una estensione massima rilevata dall’Agenzia Spaziale Europea (ESA) pari a circa 23 milioni di chilometri quadrati. Un diametro paragonabile a una superficie superiore a quella dell’intero continente antartico e di soli due chilometri quadrati in meno rispetto all’anno precedente. E dire che, nel 2019 si era parlato di un buco quasi chiuso.
L’importanza del Protocollo di Montréal
Come spiegato dal direttore del Copernicus Atmosphere Monitoring Service, Vincent-Henri Peuch, le due rilevazioni eccezionali consecutive non devono mettere in dubbio la bontà del Protocollo di Montréal: “senza cui, infatti, i dati sarebbero anche peggiori”.
Firmato nel 1987, il Protocollo è il primo trattato internazionale ad aver riunito ogni paese del mondo e punta a proteggere lo strato di ozono, promuovendo la ricerca e vietando tutte quelle sostanze, soprattutto clorofluorocarburi (CFC) e idrofluorocarburi (HFC) che, raggiungendo l’atmosfera, provocano una riduzione dell’ozono.
Un legame diretto
Secondo le previsioni dei ricercatori ci vorranno ancora circa quarant’anni prima che lo strato protettivo di ozono recuperi le sue proprietà, intaccate dall’attività dell’uomo. In questo processo, l’industria può fare molto. Sì, perché se il protocollo sta dando i suoi frutti, i dati eccezionali rilevati nell’ultimo biennio sono da imputare anche alle condizioni meteo, capaci di influire in modo decisivo.
Il buco dell’ozono e il problema del cambiamento climatico, pur essendo fenomenologie distinte, hanno rivelato punti di contatto importanti. Gli studiosi, infatti, stanno valutando l’impatto dello scioglimento dei ghiacciai nel continente Artico sul vortice polare e le oscillazioni fatte registrare negli ultimi anni. Senza contare l’annoso problema dei gas serra, che comprendono elementi capaci di intaccare lo strato di ozono e condizionarne l’evoluzione.
Il buco dell’ozono in azienda
Tenere a mente questo aspetto è fondamentale e impone alle aziende di alzare i propri livelli di attenzione sul tema, considerando il proprio impatto anche in ottica di buco dell’ozono. Anche perché, l’aumento delle temperature comporta tutta una serie di fattori capaci di agire sulle percentuali di ozono in atmosfera: in primis, perché le nubi concorrono a ridurre l’impatto dei raggi UV, e, poi, anche perché influenza le correnti atmosferiche, agendo direttamente sulle modalità di ridistribuzione dell’ozono alle latitudini più basse.
E non bisogna dimenticare che, a loro volta, i livelli di ozono condizionano il cambiamento climatico, con una riduzione delle piogge, capace di provocare siccità e favorire l’insorgere dei conseguenti incendi. Un dato eloquente? Il 50% circa delle variazioni registrate nell’emisfero australe in tema di precipitazioni sarebbe da imputare proprio al buco dell’ozono, che resta, dunque, un problema di primo piano e chiama le aziende a una presa di coscienza e azioni concrete per ridurre il proprio impatto sull’ambiente e il clima.